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DR. AKAGI
(KANZO SENSEI)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 20 maggio 1998
 
di Shohei Imamura, con Akira Emoto, Kumiko Aso (Giappone, 1998)
 
"Un medico deve soprattutto avere due buone gambe. Se ha una gamba rotta, deve correre con quell'altra. Se le ha rotte tutte e due, che corra sulle mani". Comincia cosi, dipingendo un medico bonaccione sempre di corsa per le stradine di un villaggio sulla costa di Okayama, nelle ultime settimane della Seconda Guerra, l'ultimo film di Imamura. Proprio di lui che, vecchio e malato, si era preso una Palma d'Oro un anno fa, con una ANGUILLA che avevamo rispettosamente giudicata encomiabile ed un po' stanca. Ed ora eccolo di nuovo qui, fuori concorso, forse per un ancora più tardivo omaggio. Sublime sorpresa: questo DR: AKAGI, cosi chiamato perché il nostro ometto in lino sdrucito e paglietta in capo si ostina a diagnosticare epatite virali a tutti, è una meraviglia.

Perché è il film che (vergognosamente) al grande giapponese non permettevano di fare da dieci anni: e solo i soldi rimediata con la palma di un anno fa gli hanno permesso di girare. Perché comincia come una commediola bozzettistica fatta quasi per scherzo; e invece si arrampica ben presto sulle vie vertiginose della provocazione, dell'energia, poi del fantastico.

Perché il nostro dottore non solo non è un ciarlatano: ma uno che, proprio come Imamura, ama combattere, e non solo contro i mulini a vento. Tanto da scoprirlo, il virus dell'epatite; e non vi dico come. Circondandosi, tanto per cominciare, dei personaggi più inverosimili in circolazione: un chirurgo morfinomane, un monaco buddista ubriacone e depravato, la puttanella del villaggio che gli serve da assistente, la padrona del bordello che gli assicura la benemerenza della soldataglia becera che occupa i dintorni. E dandosi da fare: per trasformare la realtà più umile del villaggio in un sogno universale mozzafiato. Con un microscopio rimediato fra i ferrivecchi, ed illuminato dalla lampada del cinematografo in fallimento. Con la collaborazione di un detenuto evaso dai lager accanto: il che gli varrà la violenza cieca e becera dei compatrioti militari.

Un storia semplice. Ma che il vecchio autore de LA BALLATA DI NARAYAMA fa esplodere con l'energia irrefrenabile di un ventenne, la voglia iconoclasta di introdurre la comicità dapprima, poi la provocazione, fino alla sovversione. L'audacia sempre pagante di accostare il comico al tragico (grazie Benigni, del quale parleremo fra una settimana): più il dono sublime di attingere al fantastico ed al poetico.

Perché non è finita, con la scoperta scientifica che premia la fede dei nostri scombiccherati eroi. Quando tutto sembra finito, la giovane servetta, che è figlia di pescatori, trascina il nostro in barca, ad imbattersi addirittura con una balena della quale andava da tempo favoleggiando. È appena l'alba: ed il mare che si fa rosa serve ad Imamura per una delle sintesi espressive più straordinarie che io ricordi. Mentre il cetaceo misterioso ed arpionato si trascina per un poco la giovane negli abissi azzurri, s'ingrossa una nuvola marrone all'orizzonte. Hiroshima è da quelle parti, ma il buon dottore rassicura la ragazzina che gli sta asciugando sotto il naso due adorabili chiappette: non preoccuparti, assomiglia ai virus che combatto al microscopio.

Meravigliosa intuizione: il sesso e la vecchiaia, la vita e la morte, la paura arcaica del mostro marino confrontata con quella incombente della tecnologia; il desiderio, la tenerezza, l'umiltà e la saggezza. Il tutto in una sola, sublime inquadratura.


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